animali nel patriarcato

AMO

UN PESCE E I PATRIARCHI

Dopo tanto tempo senza aggiungere articoli nuovi al blog, impegnata nel seminario che ho lanciato sul Patriarca interiore, oggi condivido qui un racconto autobiografico che, a mio avviso, sempre con il patriarcato ha a che fare.

Nella speranza di essere compresa, e che i signori uomini non la prendano sul personale (ricordo che ho dedicato anni al “Maschile sacro”, inclusi due libri e due raduni), ma che tutti comprendano che è la connessione al cuore o sconnessione dal cuore a fare la differenza, e che è venuta l’epoca in cui siano l’amore, l’empatia e la comprensione interiore a parlare – e a regnare. Uomini o donne che siamo.

Grazie a chi avrà l’interessse e a chi si prenderà il tempo di leggere quanto accaduto e la mia analisi.


Non so se da quando ho deciso di lavorare sul patriarcato con un mio seminario mi arrivino delle prove che mi riportano in vario modo a confrontarmi con questo mostro, o se semplicemente, poiché ci lavoro su, ora vedo meglio le sue mille facce – e, in un modo o in un altro, sono tutte violente.

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Ho chiesto consiglio in rete e in diversi mi avete risposto:

“Trasforma”.

Trasformare è l’energia di Kali: trasformare è qualcosa di violento è sempre doloroso come un parto, o meglio, credo, come, prima, diventare un vulcano e, poi, trovare il modo di eruttare. In giorni così, il mio corpo partecipa a questa trasformazione e mi viene di tutto.

E non è un processo che si fa con la teoria, non è un processo che si fa spingendo un bottone e non è neanche una comprensione.

È il dovere, e io sento anche l’obbligo, di ribaltarsi come un guanto in modo da dare ancora una forma all’ignoranza, in modo da dare un senso a qualcosa che è nato dall’assenza di amore.

E anche in modo da cambiare forma io stessa, per liberarmi di una realtà che mi hanno appioppato e che io non concepisco. Insomma, una spinta ancestrale e spirituale a diventare mutaforma per sganciare ami.

E questa storia riguarda proprio, anche, un amo. E me che amo.

amore e animali

Trasformare è dunque l’extra lavoro di questi giorni.

In questo senso, per esempio, tra i mille esempi nella storia, l’esigenza di Franca Rame di rappresentare in teatro la violenza e le torture usate su di lei è stata un dovere animico: l’Arte nel suo stato puro, che a volte celebra la bellezza e altre volte, come questa, deve trasformare la merda in oro perché quella merda sia servita a qualcosa – e perché poi quella merda sparisca, alla faccia sua e di chi la mette in giro, per aumentare gli spazi di luce.

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Nel mio caso, solo l’ultimo di tanti casi, è stato un siluro, un pesce grande quasi quanto me.

Pescato una settimana fa da due operai rumeni che lavorano sotto casa e costretto per una settimana in una piccola vasca in muratura in giardino, con un amo rimasto piantato in gola.

Questa cosa ha modificato il corso del mio tempo, del mio sonno, delle correnti ascensionali, del periodo che stavo vivendo.

Qualcuno di voi mi dirà: e cosa c’entra un pesce con una donna che ha subito violenza?

C’entra. C’entra perché tutti subiscono violenza quando sono soggetti a uno dei colpi del patriarcato. E qui non si tratta di femminismo o psicologia: qui si tratta del fatto che a fare cose così sono, obiettivamente, sempre uomini. Se qualcuno che legge può smentirmi, mi scriva.

C’entra perché il dolore è dolore, non importa che sia emanato da una donna, da un uomo, da un cane, da una mucca, da un riccio, da un topo, da un calabrone, da un albero o da un pesce.

racconto di un pesce
Image by 愚木混株 Cdd20

C’entra perché sono stata male per una settimana (e mentre continuo a scrivere questo racconto, la scia di quel vissuto continua ad agire, a trasformarsi e a trasformarmi).

C’entra perché gli agenti sono stati uomini. E non è un’opinione.

C’entra perché non riescono neanche a capire lontanamente la gravità del creare dolore, perché mi hanno presa in giro, perché tutt’attorno si rovinano rapporti e si vanno a nutrire le guerre.

C’entra perché non ho potuto fare niente né intervenire in alcun modo utile, che non peggiorasse solo la situazione del pesce e tutto il resto.

C’entra perché questa gente vive nel nostro stesso mondo in questo modo, anche oggi.

C’entra perché anch’io, come una donna violentata, non riuscivo e non volevo raccontare. Per non dare spazio a malumori e a cose brutte, per non amplificare il dolore anche sugli altri.

C’entra perché ho provato impotenza, imbarazzo, vergogna, separazione, giudizio, disperazione, colpa, anche.

storia di un pesce
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C’entra perché anche il mio corpo è stato male – insonnia, pianto protratto ovunque e dissenteria – una “pulizia” oppure una specie di tentativo di sciogliermi, forse, per liberarmi di quell’amo.

C’entra perché è mancata e manca del tutto l’empatia, e quello che chiamiamo “umanità” – non sono, forse e in un certo grado, sinonimi? Perché qui mi pare che ognuno interpreti “umanità” a modo suo.

C’entra perché l’estate scorsa avevo fatto pace con il mio Patriarca interiore, mi ha sostenuta dopo decenni di “integrazione qui” e “integrazione là” e ancora capitano sull’esterno cose del genere sulla mia strada.

Per me è stata una settimana eterna – e il suo effetto continua oggi che devo rielaborare.

Leggi anche: “Patriarcato, l’inventario dei danni”

Racconto.

I primi due giorni non mi ricordavo neanche più che il grande pesce fosse ancora lì, tanto era assurdo e improbabile il frangente di essere andati a pescare e aver lasciato lì questo enorme pesce in cattività anziché ucciderlo e mangiarselo, o liberarlo. Non so, in qualche modo per me non poteva essere.

Poi, ho iniziato a sollecitare per liberarlo. L’operaio rimasto, inizialmente, mi disse che voleva aspettare il suo collega, che sarebbe tornato, appunto, il fine settimana dopo.

Poi, solo lì (al secondo o terzo giorno) mi dice che liberarlo non è così semplice, perché si rischia una multa, ma soprattutto perché il pesce ha un amo piantato. Quindi, non è solo in cattività e con poco ossigeno, ma è anche un essere agonizzante! Perdipiù, a dieci metri da casa mia.

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La cosa mi ha fatto drizzare i capelli sulla testa: ma davvero tu pensi di “parcheggiare” un essere che era libero, in quelle condizioni, per una settimana, come fai spesso con un lavoro lasciato in sospeso per inerzia, apatia, disordine mentale o per il tuo amico alcool?

Quella sera, sono uscita che era già buio per andare a dirgli che mi svegliavo alla notte pensandoci e che io sentivo quello che sentiva il pesce e che non era affatto bello.

Lui mi rassicurò dicendomi che il giorno dopo avremmo risolto, o liberandolo in caso fosse riuscito a togliergli l’amo, oppure togliendogli la vita.

Dovevo farmelo bastare, vista la condizione creata.

animali ed elabnorazione del dolore
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Purtroppo, scoprii il giorno dopo che mi stava mentendo, che mi evitava, che si era impegnato in altro, che si scocciava se gli parlavo e che non aveva alcuna intenzione di muovere un dito finché non fosse tornato il suo amichetto.

Più di una volta emerse la versione che il pesce era “suo”. Cosa che a me suona sempre come parlare di proprietà privata sul mare o su Dio. E, di nuovo, la mia bile si attivava.

Come mantenere le vibrazioni alte (il benessere psicofisico e la felicità) quando toccano altri esseri viventi?

Come comportarsi con il fatto che il dolore di uno è il dolore di tutti noi?

Come difendersi dal fatto che tutti questi uomini non riescono ancora a sentire, se la loro inconsapevolezza va a riversarsi non su oggetti, ma sulla vita di altri?

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Quante volte l’abbiamo visto nella storia, e poi istituiscono i giorni della memoria?

Per quante volte ancora le donne devono tacere e lasciar fare?

Dov’è la porta?

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Ogni volta che gli chiedevo perché non l’avessero ucciso subito, non mi rispondeva e basta, dicendomi che dovevamo aspettare l’altro, che l’aveva pescato.

Se si fosse trattato di un animale più piccolo, avrei organizzato una specie di imboscata per andare a liberarlo io.

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Poi, la sera ho iniziato a pregare per l’essere sofferente. A creare visualizzazioni energetiche per lui e attorno a lui. A pregare che mi sentisse e che ne giovasse.

frequenze dell oro

Poi, ho iniziato ad andarlo a trovare.

L’acqua, torbida nei primi giorni, si era sedimentata, schiarita e alla fine vedevo bene la sua sagoma, enorme, ma immobile.

Anche nel giorno in cui ero più agguerrita e decisa a scoppiare e ad agire, alla fine mi ricredetti: di fronte a quell’immobilità protratta e quel silenzio, pensai che un mio intervento attivo avrebbe scatenato una battaglia cruenta. E questo sia nel caso dell’estrazione dell’amo (cosa pressocché impossibile), sia nel caso dell’uccisione – mentre il pesce restava immobile sul fondo, quindi per altri due giorni ho preferito quello, augurandomi che stesse dormendo, che fosse in coma o che fosse morto.

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Un altro effetto collaterale del patriarcato e dei suoi danni, psicologici, mentali, ambientali e sociali, è quello di spingerti a chiederti se tu sia davvero di questo pianeta, e di spingerti infine a concludere che tu, donna o uomo collegato a tutto e tutti, non puoi appartenere a questa razza e a questa cultura ancora dominante e sei certamente capitato qui per missione animica, o per sbaglio.

Quindi, ancora distanze, ancora mancanza di diritti, ancora assenza di un senso di casa, esilio interiore, silenzio pieno di rabbia e impotenza; ancora il mostro dalle mille teste che usurpa il pianeta al posto nostro.

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Badate, non parlo della naturale violenza per la sopravvivenza, che possiamo vedere ovunque anche in natura e che esiste da che si è formato il pianeta Terra, miliardi di anni fa. Parlo di esseri umani, se tali sono, che causano dolore per noia, per caos mentale, per inerzia, per pigrizia, per disamore interiore, per insensibilità, per una loro sconnessione profonda. Già uccidere sarebbe più gentile e più umano.

maltrattamento animali
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L’ultimo giorno prima del ritorno dell’altro operaio rumeno è scoppiato un pandemonio: vado a trovare il pesce e vedo che, purtroppo, se pur immobile, è ancora vivo e trema. Addirittura, mi pare di vedere che in quel momento sia riverso a pancia in su. Enorme.

Manifesto il mio dolore e il mio essere allibita da questa situazione protratta, questa volta coinvolgendo anche il proprietario di casa, e lui inizia a chiedermi perché non intervengo per tutti i dolori del mondo.

L’operaio lì a fianco mi sfotte con un ghigno vigliacco, guardando in basso perché non riesce a guardarmi negli occhi; il proprietario mi sfotte coi suoi modi aulici e filosofici.  

Solo che di lui avevo stima, solo che il suo livello culturale è altissimo, solo che lui porta avanti il percorso spirituale di Steiner. Niente da fare, se non ci metti il cuore, non è servito a niente.

Questi uomini sono milioni di volte più morti del pesce, solo che continuano a creare anelli di dolore nel mondo senza trovarci niente di strano. E io rovino rapporti perché dico quello che penso. E i patriarchi non vogliono essere disturbati dalle tue consapevolezze: sono scomode e intralciano “i lavori”.  

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Poi, nel giorno del ritorno di quell’altro (il pescatore), sono stata lontana da casa a vagare nella natura il più a lungo possibile, stando male, empatizzando con quell’essere senza scampo, né lui, né io. Se non altro, nella loro, immagino, perplessità mi hanno fatta contattare dal “proprietario” del pesce; il responsabile centrale.

Ho cercato di spiegargli la situazione con la massima empatia che potevo. In tutta risposta, il massimo che questo essere (non posso chiamarlo uomo) ha saputo produrre è stato: “Tranquilla, domani arrivo e lo ammazzo.”

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Di nuovo: il patriarcato è ancora qui e questo è ciò che dobbiamo farci bastare? Abbiamo una scelta? Perché il danno è già stato fatto… Possiamo essere coesi ed evitare i prossimi?

ritratto con pesci

La mia risposta istintiva è stata che non gli auguro di provare ciò che ha provato quest’essere questa settimana; che se quel pesce è ancora vivo dopo tutto questo merita di essere liberato e di vivere e, tre, “se lo ammazzi non parlarmi mai più, e io non ti vedo.”

Quest’ultima frase ha squarciato il mio cervello come un fulmine o uno sparo. L’ “io ti vedo” di Avatar, la frase che io ritengo più forte di un “ti amo”, girata al contrario è un’offesa universale che mi è uscita dalla pancia, e mi sono resa conto essere, per me, la cosa più cattiva e lacerante che si possa dire.

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Poi, mi sono decisa a informarmi su Google, per scoprire che un siluro liberato ha ben poche possibilità di sopravvivere dopo la fatica messa nella lotta, nella cattività e soprattutto con quell’amo piantato in bocca. Il più delle volte, rischiano di morire poco dopo, andando a creare tossine e veleni nei canali. Inoltre, scopro che è illegale sia rilasciarli, sia pescarli – un articolo del mantovano parla di reato.

La mattina del suo ritorno scrivo a quell’essere cieco che quel che ha fatto è reato, gli mando l’articolo, e sparisco da casa per un altro giorno per stare lontana da qualunque cosa avrebbero fatto, perché ormai sarebbe stata nociva in tutti i casi. Il maschile scollegato dal cuore questo fa.

Il pomeriggio, l’acqua era di nuovo torbida e immagino (e spero) che il pesce non fosse più lì.

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Qualunque cosa mi diranno nei prossimi giorni, i patriarchi, dal più ignorante al più colto, non mi racconteranno la verità.

Ai loro occhi, io sono la bambina stupida ed emotiva, quella che fa drammi dal nulla e addirittura sulla “proprietà” altrui, o comunque sono quella strana.

Peccato non sappiano che qualunque sia la loro verità. ormai è comunque dannosa, è qualcosa che non doveva succedere – non se prodotto da umani. L’agonia gratuita. La creazione di dolore. La sua espansione, a cui ho cercato di mettere argini per come ho potuto e per il poco che sono stata in grado di fare. Questa volta, non ho avuto gli strumenti per restare in piedi e arginare quei cerchi, o li ho dimenticati nel contagio del dolore (la sua natura).

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Voglio dare un nome a quel pesce, e voglio chiamarlo Grazia.

Perché è la grazia la cosa più distante dal vivere sudicio di chi non si ama.

La grazia la dimensione più vicina allo Spirito. “Grazia di Dio”.

La grazia quella cosa che dobbiamo creare e diffondere adesso, e richiedere, ed elargire, e usare per colorare di luce le ultime vomitate di un sistema culturale, il patriarcato, che ha impedito all’amore di governare, di manifestarsi, di circolare e di dirigere i nostri atti. Che ha tarpato le ali alle donne e i cuori agli uomini, a cui non resta, così conciati, che morire di infarto, di suicidio o di alcool, da millenni.

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Grazie Grazia, perdonami Grazia. Non ho potuto fare quasi niente, o non ho saputo cosa fare… e io stessa faccio fatica, adesso, a perdonare la mia strana e inusuale immobilità. Non volevo causarti ulteriore dolore gratuito, eppure io fatico a perdonarmi (un altro amo).

Ancora, a distanza di giorni, cerco di evitare quella vasca, ci sto lontana e il massimo che sono riuscita a fare è stato appoggiarci sul bordo una mia pentasfera, consapevole che dovrò comunque affrontarla e risanare tanto.

Ieri in un canale ampio e dorato dal sole ho visto un grande pesce saltare e ho dovuto piangere di nuovo pensando alla differenza tra il suo stato e quello che hai vissuto tu – ma sperando in cuor mio che quello fossi già tu, rinat@.

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Che tu possa passare con i tuoi guizzi per quante più persone possibili e aiutarci a svegliarci per essere degni di vivere qui, su un pianeta in cui esistono esseri pieni di bellezza e grazia come te, esseri che rispettano le leggi naturali, sensate per quanto dure. Esseri che non hanno creato culture squilibrate che si ritorcono contro la propria specie e il proprio ambiente.

Nessuno potrà mai convincermi del fatto che l’anima di un patriarca possa essere più antica ed evoluta dell’anima di un pesce, di un cane, di un pino o di un topo.

Chi ancora incarna il patriarcato, uomini o donne che siano (ci sono anche queste), è sconnesso dallo Spirito e porta sconnessione nel mondo. Quello che i patriarchi vollero chiamare “maligno”, semplici forze oppositrici all’amore. “Tradimento dell’amore”, come l’ha chiamato un’amica.

Vorrei non perdonarli mai, se non fosse che ciò è proprio quello che ci renderebbe come loro. 

Un altro aspetto da sviscerare è quando poi ci ammaliamo o stiamo male noi, sperando che ciò vada a muovere qualcosa in loro. Non è questa la via, non fa parte dell’amore neanche questo, anche questo è sconnessione.

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Non trovate strano che AMO sia la prima persona singolare del verbo amare, un fondamento universale quasi pari al suono dell’OM, e che allo stesso tempo stia a indicare il nome di un’arma?

Quell’AMO l’ho sentito muoversi attivamente in me in entrambe le sue forme per tutto il tempo non-tempo di questa esperienza.

L’ “io amo” diffondeva una luce dorata con la quale cercavo di preservare il pesce, di staccarlo dal corpo di dolore ed elevarlo a una dimensione di pace, ma nello stesso tempo diventava un amo conficcato nel mio essere perché non mi permetteva più di fare le mie cose in pace e con distacco, sapendo che accanto a me stava avvenendo tutto questo (e il dolore di uno è il dolore di tutti).

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Adesso, non resta che trasformare valanghe di cose. Mi sembra di essere di fronte a un trasloco.

Perché siamo tenuti a trasformare?

Perché il dolore non sia stato inutile.

Perché l’amo non faccia incancrenire una parte di noi: per liberarci dalla sua presa – o trasformo me, o trasformo l’amo, ma sono costretta a muovermi.

Perché la cosa serva anche ad altri.

E, nel mio percorso condiviso, per capire dove ancora il patriarcato sta facendo presa dentro di me.

Infatti, per esempio, ho permesso che il loro denigrarmi e la loro opinione su di me mi facesse dubitare della “giustezza” della mia sensibilità, consultando il parere anche di altre persone (tutte avvallanti il mio sentire, uomini e donne, senza eccezioni).

Ho messo la salvezza delle relazioni attorno a casa mia davanti alla vita stessa.

Lo so, lo so che alla fine il danno era compiuto e c’era davvero poco da fare, va bene, vorrà dire che gli effetti del mio “amo” avranno una gettata davvero lunga, saranno davvero ad ampio raggio, arriveranno a muovere e spostare qualcosa anche dentro questi stessi uomini.

La mia vendetta sarà portare luce e sveglie, a costo di disturbare ripetutamente, venire giudicata, dare fastidio, scomodare, ribaltare.

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L’etimologia di “vendetta” viene da “proclamare forza”, “liberare forza”.

Ce la facciamo a proclamare una forza sanatrice e salvifica, che non sia quindi quella patriarcale, che è una forza disconnessa dal cuore?

È pieno di uomini che hanno connesso la mente al cuore. Il problema non sono gli uomini, il problema sono quelli che ancora incarnano il patriarcato e quando le donne ancora si assoggettano alle loro recite.

Quello che è successo merita una vendetta vera, non a caldo. E la vendetta più efficace e grande che io possa immaginare è quella di far sentire a ciascun uomo l’amo che ha dentro, prima che diventi amo-re.

Sonia Serravalli

4-8 novembre 2023


Il mio mestiere è trasformare i problemi in viaggi interiori e le crisi in opportunità.

 Il Bosco Femmina
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3 Commenti

  1. Ciao Sonia, grazie per questa testimonianza intensa che riaccende in me quella scintilla che a tratti assopisco.

    Molte volte mi sono sentita con questo senso d’impotenza, come hai ben descritto, rischiando di sembrare emotiva e infantile e la batosta più grande a volte la prendo quando facendo percorsi spirituali, quasi scopro che tutto il mio sentito è in realtà frutto delle mie radicate credenze disfunzionali, quindi puoi immaginare che dualità ogni volta devo affrontare

    Fortunatamente poi ci sono persone come te, che riescono a pacificare il mio rimuginio e riscopro che ogni cosa può essere complementare, purché venga trainata dal cuore.

    Quindi trovo le tue “battaglie” assolutamente legittime, trovo la compassione che aggiungi l’elemento inossidabile, empatizzo ogni sequenza del tuo racconto perché in altre forme mi sono trovata con questo cappio alla gola e mi ci trovo ancora. Non possiamo cambiare gli equilibri dell’Universo, non possiamo intrometterci nelle vite altrui e nei patti animici di ogni essere ma allora perché ci vengono mostrate? Perché abbiamo un compito in quella circostanza oppure perché dobbiamo cambiare e trasformare il nostro sentito emozionale?

    C’è molto patriarcato in questa spiritualità sia new Age e ancor di più in quella settaria che vanta qualche richiamo alle antiche discipline. È veramente difficile saper Trovare un equilibrio per chi ha il dono/condanna di “sentire” come te /noi e riuscire a mantenere un equilibrio psicologico emotivo davanti alle assurdità dell’energia maligna…..
    Qualche anno fa, mi trovavo in India per un corso di yoga, partivo con i miei insegnanti italiani,avevo il compito di scrivere il diario di viaggio e nella contemplazione a tratti bella mi si palesó la scena più attivante per me in assoluto. Discriminazione, caste, patriarcato e schiavitù. Una donna, minuta palesemente della più bassa casta, su un cantiere maschile, maltratta, usata, ridicolizzata da quel tiranno che non lasciava spazio alla compassione. L’unico mezzo che avevo in mano era scrivere di quel che accadeva davanti ai miei occhi nel diario di viaggio che sarebbe giunto on line anche in italia visto che facevo parte di un progetto della scuola di formazione yoga. Sai cosa ottenni? Un richiamo dal mio maestro di allora, che usando le scritture degli yoga sutra, volle farmi sentire sbagliata, la sua somma verità in qualità di guru fu che ero giudicante e quindi non conforme alla disciplina che mi stava trasmettendo. Ti risparmio il dopo ma da lì compresi che un altro uomo del patriarcato, faceva leva su di me nello stesso modo che da secoli ci trascina e iniziò il mio allontanamento graduale da quel tipo di influenza
    Se volessi leggere lo scritto di quel episodio, sarei onorata e grata e te lo invierò. Intanto grazie per questo contributo di cuore

    I

    1. Grazie Tamara, condividerò anche su FB questa tua bellissima riflessione.
      Leggerei volentieri il tuo scritto ma non me la sento di cercarmi altro dolore… così come evito tutti i film drammatici o violenti. Da anni. Però ti ringrazio tantisssimo della condivisione e dell’offerta.
      Grazie di cuore!

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