IL BOSCO E LE DROGHE
LE SOSTANZE-PONTE
Come dice Panorama, “la maggior parte delle droghe per uso medico o ricreativo ha “origini selvatiche”, cresce naturalmente nelle foreste, nei campi e nei deserti.” (Articolo qui).
Da sempre, attraverso le sue diverse culture e a tutte le latitudini, l’essere umano ha utilizzato le sostanze presenti in natura non solo per nutrirsi e per curarsi, ma anche per apportare cibo alla sua mente e alla sua crescita spirituale, per esempio attraverso sostanze psicotrope.
Il loro scopo era (e sarebbe ancora) quello di agevolare la persona a raggiungere stati di coscienza altrimenti difficili (ma non impossibili) da raggiungere con le proprie sole forze mentali. Anche se tecniche di respirazione, ipnosi/trance e meditazione possono permetterlo.
Con lo sdoganamento di determinate conoscenze ermetiche e sacre negli ultimi decenni (dal Centro e Sud America, dall’Asia, dall’Africa), – complici anche la globalizzazione e un turismo di massa che devasta anziché portare a casa cultura – certe pratiche spirituali sono, purtroppo, state recepite male dai non autoctoni e sono state importate in due forme, totalmente lontane dalla loro funzione originaria:
- puri mezzi per sballarsi
- o oggetti di nuove mode e quindi di un mercato.
Le nostre radici europee ed italiche conterrebbero in sé già tutti i presupposti per riesumare pratiche nostrane ai fini di un’ascesi spirituale senza il bisogno di farsi guidare da un’esterofilia del tutto ingiustificata e non pertinente.
Non ha senso, per esempio, pagare fior fior di quattrini per partecipare ad un “percorso sciamanico” di un week end, in un luogo recluso e artificiale, finto, non originario, totalmente avulso dal contesto che l’ha creato, per poi non conoscere la nostra stessa mitologia, magia e cosmogonia, insabbiata prima dall’apparato clericale e poi dall’Illuminismo.
Ha senso – e solo se se ne avverte la chiamata – prendere parte ad un percorso spirituale che in certi casi coinvolga piante e principi attivi autoctoni, se si è nati nella cultura stessa che ha originato tale pratica o se vi si è giunti attraverso anni e migliaia di passi mangiando i prodotti di quella selva o di quel deserto, respirando la sua aria, assorbendo la sua luce (e non un’altra) e i sentieri mentali e archetipici degli stessi indigeni.
Ciò vale per la penisola italiana tanto quanto per gli altipiani del Perù o per i deserti messicani.
I seminari sottovuoto possono essere parentesi intellettuali nella nostra vita, infarinature di cosmogonie altrui, spesso neanche tanto piacevoli dal punto di vista psicofisico.
Ma in ogni caso sono bolle illusorie di qualcosa che né fa parte del nostro DNA, né delle radici dei nostri antenati, né della nostra forma mentis, per quanto ci sforziamo di credere che sia così. Basterebbe trasferirsi per un anno presso l’etnia stessa che ha tramandato tale pratica, da noi malamente importata, per rendersi conto che non si aveva un’idea del loro modello mentale e del loro modo di percepire le cose, la vita, il mondo e la divinità.
Inoltre, appunto, l’approccio a queste pratiche da parte di persone che non abbiano compiuto un percorso di consapevolezza porta al puro estrapolare il principio attivo che provoca “lo sballo”, gettando via l’iceberg che gli dava un senso e tenendosi la punta (di qualcosa che non si conosce).
Questo fenomeno si potrebbe paragonare al vivere il sesso dal punto di vista puramente genitale, anziché formarsi per accedere al portale sacro che esso realmente è.
È certamente un argomento molto vasto, a cui andrebbero dedicati libri interi.
Renzo Paternoster qui ci dice con grande chiarezza:
“Nell’antichità non esisteva il problema morale dell’uso delle droghe, assumerle non era una questione di giusto o sbagliato, rappresentavano una parte fondamentale del rapporto con le divinità, un collegamento con la medicina, una connessione con il proprio corpo.”
Abdicare alla responsabilità delle proprie azioni in questo senso e depauperare il significato sacro della pianta a scopi consumistici e autolesionisti è stata una grossa perdita della nostra cultura, di cui è bene auspicare un risanamento.
La pianta, l’albero o il fungo non è il fine, è il mezzo, il canale, il ponte sacro per permetterci di comunicare con dimensioni altre. Perdere questo non è un dettaglio, è piuttosto come perdere una parte di cuore.
In mille modi, il bosco sta tornando a manifestarsi nella nostra cultura, reclamando il proprio valore ancestrale divinatorio/divino. Il grande valore di un attivatore.
Nello stesso articolo, Paternoster si riferisce agli antichi Egizi quando dice:
“Molte sostanze psicoattive servivano anche per “parlare con gli dei”, per riti magici e per divertimento. Tra queste droghe, oltre all’oppio, alla mandragora, alla cannabis, anche la ninfea, il giusquiamo, la birra (di dattero, di orzo e di melagrana), il vino di palma e d’uva, i semi di ruta siriaca, la lattuga selvatica serriola.”
Laddove “divertimento” non era certo fuga dalla realtà. Quanto, al contrario, connessione ed esplosione di pulsioni.
Continua poi:
“L’usanza di utilizzare sostanze psicoattive a fini cerimoniali continua anche presso i Greci: oltre a vini e birre, gli antichi ellenici usavano anche canapa, oppio e altre sostanze solanacee (giusquiamo, belladonna, mandragola) con suffumigi e incensi.
Famose sono le esperienze extracorporee legate ai misteri Eleusini, caratterizzate da una sovraeccitazione sensoriale data anche dall’uso della bevanda psicotropa chiamata kykeon, che conteneva un estratto del fungo ergot, sostanza usata anche nella produzione di LSD. Albert Hofmann, chimico svizzero e “padre” dell’LSD, conferma la probabilità «che nell’antica Grecia sia esistita una varietà di ergot che cresceva sul loglio (Lolium temulentum, meglio conosciuto come zizzania), contenente soprattutto gli alcaloidi allucinogeni». (Gordon Wasson R. – Hofmann A. – Ruck C. A. P., Alla scoperta dei Misteri Eleusini).
Droghe erano utilizzate anche dai filosofi, poiché se inalate portano all’ebbrezza e procurano pensieri elevati.
[…] Anche gli antichi Romani non si sottrassero all’uso di sostanze psicoattive, non considerando ancora la droga come un elemento malefico.”
E poi, lo scontato finale:
“Con l’avvento del Cristianesimo, droghe e fede non possono coesistere, poiché le prime conducono a “falsi dei”, distogliendo la fedeltà dal “vero Dio”.
[…]
Durante il Medioevo cristiano si assiste a un mutamento di atteggiamento nei confronti delle droghe.
Esse furono recepite tra i concetti di “male” e di “peccato” dalla religione cristiana. Ecco allora accendersi roghi anche per chi ne faceva uso.”
Per conoscere un po’ meglio le nostre origini e le nostre tradizioni magiche e rituali da questo punto di vista, consiglio vivamente il libro MITOLOGIA DEGLI ALBERI del francese Jacques Brosse.
In tale testo, per esempio, si racconta come la betulla fosse considerato l’albero cosmico da tante culture nella nostra zona del pianeta: da quella germanica-scandinava a quella russa-siberiana. Il motivo è che il fungo allucinogeno che guidava gli sciamani nella trance, l’Amanita muscaria, predilige la betulla come suo ecosistema ideale. Al secondo posto troviamo l’abete, e non a caso l’abete è considerato l’albero cosmico da molte culture, posizionandosi al secondo posto dopo la betulla.
Secondo credenze popolari molto diffuse in Siberia infatti, “lo spirito della betulla è una donna di età matura che appare a volte tra le radici dell’albero o nell’atto di uscire dal tronco, rispondendo all’invocazione di un fedele. Essa si rivela fino alla vita, i capelli sciolti, e tende le braccia mentre fissa con occhi seri il credente cui offre il seno nudo.
Dopo aver bevuto il suo latte, l’uomo sente decuplicate le proprie forze.”
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